Un libro come strumento terapeutico

       di Marianna Borgato e Viola 
 Un percorso di cura raccontato dalla terapeuta Marianna Borgato e dalla sua paziente Viola. E’ raro trovare una narrazione a quattro mani di un’esperienza così delicata e intima come la psicoterapia. Quando accade, come in questo caso, il risultato è prezioso e stimolante sia per le due protagoniste sia per psicoterapeuti neofiti o esperti e per qualunque persona interessata a comprendere cosa accada nel spazio riservato, spesso impenetrabile di una psicoterapia.     Antonella Ivaldi

ARTICOLO INEDITO

Quella che segue è una creazione nata dalla collaborazione fra psicoterapeuta e paziente, a chiarire al lettore l’avvicendarsi delle due autrici sarà lo stile corsivo che contrassegnerà il testo scritto dalla paziente, in arte Viola, mentre la sua assenza indicherà le parole della terapeuta.

  1. Caro Giacomo, m’insegni …

Viola è originaria di un piccolo paese del nord Italia, una realtà  di  provincia in cui le figure di riferimento sono ancora oggi il farmacista, il medico e il prete. Lei è la prima figlia di una famiglia d’insegnanti, nata prematura e per questo ritenuta dai suoi bisognosa di maggiori cure ed attenzioni. La bambina è cresciuta fra amorevoli attenzioni e preoccupazioni legate alla sua salute; il compito più difficile per i genitori sembrava fosse fare di tutto per impedire a Viola di ammalarsi, per il timore di perdere l’amata figlia. Cresciuta studiando e leggendo libri come il diario di Anna Frank, vedendo film neorealisti tedeschi, Viola dedicava parte del suo tempo a scrivere i suoi numerosi racconti, creando un angolo tutto suo all’interno di un contesto familiare per certi versi molto stimolante culturalmente, per altri versi talmente protettivo da rappresentare per lei una campana di vetro. La sua infanzia fatta di studio e densa di stimoli culturali, le ha regalato una base di conoscenza importante e una capacità intellettuale solida e, purtroppo, nella sua esperienza scolastica, anche il ruolo di “secchiona” della classe. Le amicizie più care di quei tempi erano dunque i libri, che trovava numerosi nella nutrita libreria del padre, mentre i giochi più belli, erano quelli dettati dalla sua fervida fantasia. Sorge spontanea la similitudine con un’altra storia: quella di Giacomo Leopardi. La speranza è che anche per Viola come per il Grandissimo Giacomo, la sofferenza possa diventare un elemento così vitalizzante, da riuscire a dare un senso pieno alla sua vita.

Finalmente l’ingresso alla scuola elementare le diede l’opportunità di rompere un po’ l’isolamento nel quale viveva e di addentrarsi nel mondo dei pari. I capelli tagliati come il figlio minore della famiglia Bradford, i vestiti in stile maschietto e l’abilità di apprendere velocemente, ne fecero da subito “quella strana“, stereotipo da cui tentò di emanciparsi passando i compiti ai compagni. Essi faticavano a considerarla “solo Viola“, per tutti era “la figlia degli insegnanti.” La svolta ci fu alle medie quando Angela, la ragazza più popolare del paese, le concesse di diventare sua amica dandole automaticamente una certa visibilità. Durante la sua adolescenza, prese sempre più piede in Viola la convinzione di esistere in funzione delle aspettative dell’altro, vissuto spesso come dominante, la necessità di compiacere, assecondare e non deludere mai. Viola immaginava che questa fosse la “ricetta” per non perdere le persone che amava, e per far parte del mondo che la circondava, per avere degli amici con cui condividere qualcosa ed evitare l’isolamento nel quale era cresciuta. Da qui le serate in macchina ad aspettare che l’amica finisse l’ultima sigaretta e per lei l’ennesima uscita fatta di boccate di fumo passivo,di un certo disagio e di un desiderio crescente di tornare a casa per rifugiarsi negli unici amici fedeli con i quali entrava in una dimensione familiare e rassicurante: i libri. Si delinea chiaramente una condizione di conflitto tra bisogni diversi e altrettanto importanti: da una parte quello di coltivare una certa sensibilità estetica e di assecondare la spinta ad esplorare la profondità dell’animo umano (maturata nel corso del suo sviluppo)d’altra parte,il bisogno di condividere vicinanza e senso di appartenenza al mondo dei suoi pari, nel quale sembrava invece, così difficile condividere le sue passioni e conciliare quindi le diverse esigenze. Questo conflitto poco consapevole e penoso, accompagnerà Viola negli anni e non le consentirà di vivere in armonia con le diverse parti di sé, portandola a stringere relazioni piuttosto incomplete e nelle quali, di volta in volta, sentirsi inadeguata e infelice. Grazie alla scelta universitaria,Viola ebbe l’occasione di approdare nella capitale– Roma – uscendo dal piccolo borgo antico cui era abituata e muovere i primi passi nella direzione dell’emancipazione. Staccarsi dalle limitazioni del paesino, esplorare la multiculturalità attraverso lo studio delle lingue straniere durante il suo precorso accademico, le offrì una grande occasione per conoscersi meglio. Non furono anni facili per Viola, segnati anche dalla sua prima relazione sentimentale importante che finì sommersa dalla delusione e dal senso d’impotenza. Dopo l’università Viola tentò di trovare lavoro in Italia, erano i primi anni del 2000, e sperava che un titolo accademico potesse garantirle un lavoro qualificato. Tutto ciò non avvenne, e maturò l’idea di realizzare il sogno di vivere nella società anglosassone, tanto decantata nella sua famiglia. Il padre viveva nel mito della cultura inglese – poster della Union Jack affissi alle pareti di casa, numerosi viaggi a Londra,  spiccata affinità con la lingua – Viola aveva respirato, fin dalla sua nascita,un’aria intrisa di ammirazione per una terra e una cultura così diversa dalla sua. All’età di 25 anni, con il diploma di laurea in lingue e letterature straniere tra le mani, volò a Londra convinta di trovare “una società che riconosce il merito alle persone”. Partì ancora una volta dal piccolo paese natale, per approdare nella città più cosmopolita d’Europa. Lì rimase per cinque anni, sperimentando una realtà che,al contrario delle sue aspettative, si è delineata come lei la definisce:“un mostro che ha tentato di uccidermi più volte”. Come entrare nel cuore di una società se non attraverso un legame affettivo? Riuscire a vivere come una londinese, condividere lo stile di vita con chi è nato e cresciuto in un luogo così affascinante e ricco di opportunità, sentirsi accolta ed apprezzata in una famiglia originaria del posto, che rappresenta il microcosmo sociale per eccellenza. Viola s’innamorò di Mattew, un giovane ragazzo, figlio di una benestante famiglia inglese, molto impegnato e con grandi  aspettative verso il suo futuro di manager in una prestigiosa società della City. La convivenza con lui impose a Viola di non essere più un’italiana a Londra, ma di diventare una londinese a tutti gli effetti. Viola non poteva sottrarsi dal soddisfare le aspettative dell’altro, c’erano in gioco sentimenti profondi,  l’opportunità di realizzare il sogno di una vita e il pericolo del fallimento che consisteva nell’essere considerata una “perdente” che non regge una vita di “vincenti”. Si destreggiava fra il lavoro in un monomarca di lusso in Oxford Street (sette giorni su sette) il tirocinio per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola inglese(considerato un lavoro “vero” dalla famiglia di Mattew)cene di rappresentanza alle quali doveva partecipare esibendo un’ottima forma fisica, il thè della domenica pomeriggio con i genitori del compagno,dai quali si sentiva correggere il suo inglese nell ‘intento di cancellare tracce di una nazionalità che nulla aveva a che fare con la borghesia londinese. A tutto ciò si accompagnava la solitudine e le lunghe attese del rientro da lavoro del suo uomo. Mattew, nella sua ascesa professionale, doveva includere interminabili cene e dopo cene che finivano a notte inoltrata.Viola ingoiò ogni tristezza e frustrazione, si trovò ben presto senza via di uscita, schiacciata dalla competitività e dalla frenesia dei ritmi di vita, dal senso di inadeguatezza e dalla solitudine conseguente all’impossibilità di essere vista per ciò che era;non sentiva né comprensione né vicinanza, ma solo una fortissima spinta ad adeguarsi a quel contesto. Quella città era formata da milioni di persone che camminavano nella folla accomunati da un unico denominatore comune: essere produttivi. In uno scenario simile iniziarono a manifestarsi i primi attacchi di panico, dei quali non parlò con nessuno e i pensieri intrusivi di poter far del male alla persona che amava. “Era terribile stare al letto con l’unica persona per me davvero importante e immaginare di fargli male”. Viola era assalita da un senso di confusione, di paura, dalla sensazione di stare impazzendo. Considerando la difficoltà a comunicare quanto le stesse accadendo e stremata dai tentativi di tenere a bada il suo disagio attraverso il ragionamento, Viola si permise finalmente di cercare aiuto. “Era un grigio pomeriggio londinese, mi ritrovai seduta con gli occhi sbarrati e lo sguardo fisso nel vuoto,nella sala d’attesa di uno psicoterapeuta.Ero terrorizzata sentivo braccia e gambe rigide, le mani gelide come fossero morte, e piccole scosse alle gambe”. Da quel momento si aprì per Viola il lungo cammino delle cure,durante il quale non l’ha mai abbandonata un forte senso di colpa verso il compagno, che doveva attivarsi per assisterla, trascurando il suo prestigioso lavoro. Quanta umiliazione per dover apparire come una persona debole agli occhi di Mattew e dei suoi genitori! Dopo un breve, terribile periodo, i genitori di Viola la raggiunsero a Londra e non appena ottennero l’approvazione dai medici, in accordo con Matthew, la riportarono in Italia.Il tempo e la distanza allentarono sempre di più la loro relazione che si esaurì nell’amarezza, attraverso conversazioni telefoniche sempre più sfilacciate. Sono trascorsi diversi anni da quel periodo e dalla perdita del suo rapporto con Matthew e del progetto di vita a Londra, la forza di questa giovane donna l’ha portata a rialzarsi dalla “barella con cui tornò in Italia” e a ricostruire la sua vita da ogni punto di vista: affettivo, professionale, relazionale.Quello che non l’ha mai abbandonata è il senso di pericolo, la vergogna e l’umiliazione legate a quell’esperienza traumatica.

2.Il percorso terapeutico

Quando l’ho conosciuta Viola chiedeva di essere aiutata a ritrovare serenità rispetto al passato, ma anche rispetto al suo presente, in cui stati d’ansia e di agitazione corporea (tremori notturni agli arti) si presentavano ancora, nonostante le sue crisi non assumessero più carattere di emergenze. Quello che Viola non voleva da me, era sentirsi normalizzare i suoi vissuti sulla base dell’esperienza di pazienti che avevano avuto le sue stesse manifestazioni;questo lo avevano già fatto a dovere gli psichiatri sia in Inghilterra sia in Italia. Viola chiedeva invece, di poter collocare,in qualche modo, quanto le accadeva nella sua esistenza, di dare senso. Queste sue richieste emergevano dalla caoticità degli stati emotivi diversi, a volte opposti, che si susseguivano durante i nostri primi incontri. Sentivo una grande difficoltà a seguire e dare spazio ai molteplici contenuti che Viola comunicava, tutti con la stessa urgenza. A complicare il tutto avevo la sensazione forte che lei non riuscisse a fidarsi, che fosse profondamente convinta che anche il nostro lavoro non sarebbe stato proficuo, come già altre esperienze precedenti di psicoterapia, poi interrotte.

3.Un libro come co-terapeuta

La mia sensazione nel rapporto con Viola era che l’attenzione di entrambe fosse troppo spesso rivolta al giudizio che lei stessa formulava su di sè per ciò che le era accaduto, e che poco spazio fosse concesso alla possibilità di esplorare insieme le motivazioni sottostanti, gli elementi di contesto, e gli stati emotivi che avevano dato origine agli episodi dissociativi. Sentivo viva la sua paura di essere pericolosa per chi amava o di assumere comportamenti incontrollati, come se questo potesse accadere in maniera improvvisa e lei ne potesse essere sopraffatta. Sentivo anche la sua difficoltà di iniziare un nuovo percorso dopo tanti fallimenti. Viola non si fidava e perché mai avrebbe dovuto? Considerando la sua storia di sviluppo e quella terapeutica ritenni necessario rispettare la sua sfiducia e negoziare con lei una dimensione esplorativa congiunta, proprio riguardo alla psicoterapia stessa e al suo significato. Era altresì opportuno concordare una cornice teorica all’interno della quale sviluppare il nostro percorso. Attingendo a quel margine di creatività e d’intuizione ai quali ogni terapeuta dovrebbe far ricorso nel suo lavoro,ho pensato di proporre la lettura del testo “Il Trattamento dei Disturbi Dissociativi di Personalità: il Modello Relazionale fondato sui Sistemi Motivazionali”  (A.Ivaldi, 2016). Questa scelta, per nulla casuale, corrispondeva all’esigenza di esplicitare a Viola le basi teoriche e metodologiche del mio modo di lavorare. Antonella Ivaldi non solo è stata una dei miei mentori professionali, ma è a tutt’oggi una collega la cui amicizia e collaborazione professionale costituiscono una grande risorsa nella mia vita. E’ altresì importante chiarire che la curiosità di Viola, la sua sensibilità, la preparazione culturale, e, non da ultima,una certa conoscenza della psicologia maturata nel suo percorso di cura, hanno reso possibile la proposta di avvicinarsi alla lettura di un testo dai contenuti specifici riguardanti la psicologia e la psicoterapia. Inoltre,pur essendo un libro denso di contenuti teorici e metodologici, quello di Ivaldi, conserva una semplicità e una chiarezza nella forma narrativa, che consente anche ai non addetti ai lavori di poterlo leggere con interesse. Per volere dell’autrice i concetti teorici si evincono dall’esperienza clinica raccontata in un ricco susseguirsi di storie avvincenti, narrate come in un romanzo, per sottolineare l’umanità intrinseca e imprescindibile del mestiere di Psicoterapeuta .Le risorse di Viola, l’attenzione sull’alleanza terapeutica, e un pizzico di creatività, hanno reso possibile l’esperienza di utilizzare il libro (che io stessa stavo consultando) come strumento terapeutico. Dopo quasi due anni di lavoro insieme, attraversando diversi empasses relazionali, posso dire che si è instaurato fra noi un crescente rapporto di fiducia reciproca, sviluppatosi soprattutto attraverso la lettura congiunta del testo. La nostra relazione, oggi, si declina su diversi piani in maniera sempre più flessibile, ma il carattere collaborativo/paritetico, mutuo ne è la peculiarità principale. Quella che stiamo raccontando rappresenta una felice e solida esperienza a due, non il metodo giusto per ogni paziente.

4.La Storia secondo Viola

Sono stata indirizzata dalla mia terapeuta nell’ottobre del 2015, dallo psichiatra che si occupava principalmente di monitorare una terapia farmacologica che mi aveva prescritto circa due anni prima. Avevo già da tempo espresso il mio desiderio di interrompere l’assunzione del farmaco e, nel settembre 2015, lui ha acconsentito, anche in vista dei numerosi progressi che aveva riscontrato in me. Tuttavia riteneva necessario integrare il lavoro già svolto con lui con un percorso di psicoterapia. Nel corso degli anni ho avuto diverse esperienze positive e negative sia di farmacoterapia sia di psicoterapia, dunque, la proposta del medico mi rendeva felice da un lato, perché significava che potevo lasciarmi alle spalle il farmaco che ho sempre assunto con timore e desiderio di liberarmene, ma diffidente dall’altro: avrei dovuto ricominciare un lavoro su di me per un tempo indefinito. Nonostante le perplessità accettai di provarci e l’esito, ad oggi, mi sembra soddisfacente. Rispetto alle precedenti esperienze, mi sembra che l’elemento determinante stavolta sia stato l’instaurarsi di una relazione di alleanza tra me e la mia terapeuta.  Ovviamente il percorso non è stato facile, né veloce, né tanto meno può ritenersi concluso. Ogni volta che si inizia una psicoterapia si ha la sensazione di mettere letteralmente la propria vita nelle mani di una persona che fondamentalmente non si conosce, e non è una scelta facile da fare, specialmente se si hanno diversi tentativi di analisi alle spalle. Non ero entusiasta quando lo psichiatra mi ha proposto l’ennesimo percorso di terapia cognitiva, ma ero disposta a tutto pur di smettere il farmaco, vivere una vita “normale” e darmi una possibilità. Non nego che la fiducia che riponevo in lui abbia influito nella mia decisione di contattare la terapeuta che mi indicava e, nonostante i miei dubbi e la mia reticenza, ad oggi gli sono molto grata del consiglio. In passato ho avuto modo di essere seguita da tre terapeuti diversi, per età, temperamento e personalità,oltre che per formazione professionale.  I percorsi sono stati tutti basati sul colloquio clinico e devo dire di avere stabilito un rapporto sufficientemente buono con ognuno di loro, stupendomi a volte del mio coraggio nel mettermi in discussione e nel tentare di affidarmi a qualcuno. Superati il timore e l’imbarazzo iniziale di dover rispondere alla domanda “perché sei qui?”, si è instaurato ogni volta un dialogo interessante, a tratti piacevole, ricco di spunti di riflessione, seppure spesso vertesse su temi personali dolorosi da affrontare, riferibili a periodi e luoghi diversi della mia vita. Tuttavia spesso mi assaliva, nei diversi percorsi,il dubbio sull’opportunità di continuare e una leggera angoscia accompagnava, a tratti, il pensiero di abbandonare la terapia in corso e contattare eventualmente un nuovo terapeuta. Il fatto di avere avuto diverse esperienze pregresse, mai definitive e di avere ancora bisogno di psicoterapia ha pesato nel tempo considerevolmente sulla percezione di me stessa. Ho spesso desiderato di non sentirne più il bisogno. Mi sono chiesta spesso che fine avessero fatto tutti gli sforzi, i sacrifici e gli investimenti impiegati in tutti questi anni, quanta sofferenza e risorse personali ed economiche investite.  Sono considerazioni molto dure da fare, che ancora in questo momento evocano in me sentimenti di sfiducia, paura e rassegnazione. Ho provato a consolarmi pensando che fosse normale, che forse la psicoterapia dura tutta la vita, ma anche quello non è uno scenario proprio confortante. Più volte mi sono trovata a pensare che se la psicoterapia non aveva funzionato, non fossero i terapeuti ad essere sbagliati, ma che fossi io a non andar bene e ad essere difficilmente aiutabile. Questa convinzione e il senso di frustrazione mi ha accompagnato per diverso tempo nel mio  percorso di cure e penso abbia contribuito a farmi abbandonare o sospendere diverse terapie. Spesso con la mia terapeuta attuale abbiamo riflettuto sul perché io fossi lì, quali fossero le mie aspettative e priorità del momento. Abbiamo parlato e messo subito in evidenza il sentimento di chiusura e sfiducia che mi caratterizzava, accogliendolo, senza stigmatizzarlo. Per me questa è stata un’esperienza straordinaria. Abbiamo scoperto insieme quanto la terapia possa dare speranza e come possa esser in modi diversi un investimento da ambo le parti. Come paziente, è stato importante sapere che questi pensieri non fossero dei tabù, che è possibile mettere le carte in tavola e partecipare alla negoziazione di un progetto di cura, senza dover arrivare a una rottura definitiva, sprecando così un’altra preziosa opportunità. Leggendo il libro che mi è stato suggerito, con il tempo ho capito il modo di lavorare della mia terapeuta e realizzato che si trattava di un approccio diverso da quelli che avevo sperimentato fino a quel momento: non siparte da certezze, ma da teorie che vengono utilizzate come strumenti di comprensione non dogmatici,la psicoterapia si forma intorno alle necessità del paziente e soprattutto sulla particolare e unica relazione tra paziente e terapeuta,vivendola, comprendendola e utilizzandola per recuperare consapevolezza, flessibilità e senso di padronanza

5. In che modo la lettura del testo e la sua condivisione in seduta sono stati utili

 Consigliata dalla terapeuta, ho iniziato a leggere il libro di A. Ivaldi “ Il Trattamento dei Disturbi di Personalità e Dissociativi: il Modello Relazionale fondato sui Sistemi Motivazionali”. Le sedute di psicoterapia hanno continuato il loro consueto iter, ma gli spunti di riflessione sono stati molto più concreti ed organizzati grazie alle considerazioni che mi sorgevano spontanee nel corso della lettura tra un incontro e l’altro. Si è trattato di un processo molto graduale e naturale che mi ha permesso il confronto spontaneo con la terapeuta su quanto entrambe stavamo leggendo. Sorprendentemente alcuni contenuti del libro mi hanno consentito di comprendere meglio alcuni sintomi e stati d’ansia, riducendo il senso di allarme e di conseguenza gli effetti, talora devastanti, legati ad essiAd esempio, conoscere la Teoria dell’attaccamento, mi ha fatto capire quanto la costante preoccupazione per miei genitori,fosse conseguente ad aspetti della mia personale esperienza di sviluppo non risolti. Sono riuscita così a tranquillizzarmi quando provavo agitazione, apparentemente inspiegabile, riguardo l’incolumità dei miei genitori. Capire che in realtà non c’era motivo per crederli in pericolo nel “qui ed ora”, ma che si trattava di una riattivazione automatica di traumi della mia storia di “attaccamento insicuro”, mi ha aiutato a rimettere le cose in prospettiva e a rasserenarmi, una notte che non riuscivo a dormire. La lettura del testo si è inserita nel processo di costruzione di una solida alleanza terapeutica, come un manuale di pronto uso per l’interpretazione e comprensione dei miei sintomi e del mio funzionamento. Se paragonassimo la psicoterapia all’apprendimento di una lingua, potremmo dire che le sedute sono simili alle delle lezioni, nelle quali si affronta la conoscenza di sé attraverso la relazione dal vivo, mentre il testo funge da interfaccia di riferimento che lo studente può consultare al bisogno, quando non è sicuro e ha bisogno di dare significato a quello che sembra non averlo. Inoltre proseguendo la metafora linguistica, che mi è particolarmente cara, è stato come un dizionario utile a mettere in comunicazione due aspetti di me che erano sempre stati separati e non entravano in contatto:spesso, nel mio modo di percepire il mondo, prevale l’aspetto intellettivo / cognitivo, il mio bisogno di analizzare, comprendere e controllare tutto. Purtroppo, altrettanto spesso, mi capita di sperimentare sensazioni corporee o stati emotivi che percepisco come disfunzionali – segnali di allarme o “falle” nel funzionamento mentale -questi ultimi, poco comprensibili attraverso il ragionamento. La lettura del libro e lo studio, seppur non approfondito, delle diverse teorie, quella poli-vagale in particolare, mi hanno permesso di colmare delle lacune di consapevolezza nella mia esperienza.  Ho avuto modo di sperimentare in corso di seduta, alcune tecniche comunemente definite “bottom up”, attraverso le quali si prende coscienza dei propri stati emotivi man mano che si ascoltano ed accolgono i segnali del proprio corpo. Venivo guidata dalla terapeuta a riconoscere i miei stati emotivi utilizzando il linguaggio del corpo e quando non ero in seduta, provavo a fare un lavoro simile, ovvero: analizzare quello che accadeva al mio corpo e nella mia mente alla luce delle nuove conoscenze e riflessioni suscitate dalla lettura del libro. Ho approfondito con curiosità e soddisfazione il mio interesse per il funzionamento del sistema nervoso umano e le teorie sullo sviluppo, ho assecondato il mio desiderio di vigilanza attiva riguardo quello che mi succede ogni giorno, ma soprattutto ho potuto comprendere e spiegare a me stessa gli episodi più seri di crisi dissociativa che avevo sperimentato in passato. Ho capito che, in periodi di forte e persistente stress, il mio sistema simpatico è in costante iper-attivazione e questo produce reazioni fisiologiche conseguenti, riuscendo così a spiegarmi, finalmente, alcuni sintomi notturni dei quali soffro da anni: tremori, tachicardie, e risvegli notturni improvvisi. Essi sono comparsi per la prima volta, diversi anni fa, a Londra, dove mi trovavo per motivi di lavoro e personali. Vivevo in ambienti relazionali caratterizzati da pressanti richieste che hanno avuto su di me un fortissimo impatto.Ero costantemente in allerta e mi sentivo sola con il mio disagio che mi sembrava impossibile da comunicare, questo amplificava l’ansia e la mia sofferenza.Con esse è aumentata esponenzialmente anche l’escalation di sintomi psico-fisici che, ovviamente, non riuscivo a identificare né tanto meno a controllare, non avendoli peraltro, mai sperimentati prima.  Da quel momento in poi, la solitudine, la distanza da famiglia e amici e la paura sempre più forte di essere seriamente disfunzionale hanno fatto il resto, precipitandomi in un turbine di emozioni che hanno complicato molto la situazione.  L’avvicendarsi degli stati depressivi mi aveva terrorizzata sempre di più riguardo il mio stato di salute, perché interpretavo quello che mi stava accadendo come una forma di follia dalla quale temevo di non poter più tornare indietro. Se allora avessi avuto le conoscenze che ho ottenuto dalla lettura del libro di A. Ivaldi, pur non essendo una “addetta ai lavori”, forse avrei avuto la capacità di dipingere scenari meno inquietanti e catastrofici rispetto a quello che stavo sperimentando, invece di spaventarmi e contribuire inconsapevolmente a rendere le emozioni che provavo sempre più ingestibili. Probabilmente ad oggi non ricorderei quella settimana come l’esperienza più terribile della mia vita, sarei stata  in grado di capire, seppur soffrendone, il funzionamento dei meccanismi neurofisiologici che si erano attivati dentro di me nonché di rapportare le storie e le sofferenze di altri pazienti alle mie sensazioni di quei giorni. La comprensione di tutto ciò, ha avuto su di me un immediato effetto tranquillizzante, mi ha permesso di sentirmi parte di un sistema più ampio, universale. E’ rassicurante pensare che quello che ci accade sia in parte la manifestazione   di meccanismi adattivi che appartengono a tutto il genere umano e che seppur a volte, spaventosi e dolorosi, abbiano un senso. Studiare e comprendere i sintomi, mitigando lo spavento che prima mi annichiliva, mi ha di molto migliorato la vita. Questo percorso condiviso con la mia terapeuta ha alimentato il mio senso di esplorazione, permettendomi di sospendere la tendenza a giudicare e a sentirmi giudicata.  Coltivando un atteggiamento positivo e propositivo nella conoscenza di se stessi e del mondo, si perviene ad una sensazione di accettazione e di liberazione dalle conseguenze del proprio passato traumatico. L’idea di raccontare insieme alla mia terapeuta la storia del nostro percorso, mi ha entusiasmato e spaventato al contempo. Espormi non è mai stato facile per me e lo spettro del giudizio altrui è sempre in agguato. Tuttavia ho pensato potesse essere un’opportunità sia per affrontare le mie paure sia per regalare, ad altre persone che soffrono, possibilità, solidarietà e speranza, così come è stato per me leggendo le storie cliniche del libro di A. Ivaldi. Superato l’iniziale “blocco dello scrittore” l’idea di rimboccarmi le maniche e di fare in modo che la mia storia potesse diventare raccontabile, mi ha permesso di pormi in modo propositivo di fronte alle emozioni che ha suscitato la scrittura di alcune parti di questo lavoro. Descrivere quello che sono, che sono stata e quello che sento, senza pensare alla costante preoccupazione di soddisfare delle aspettative altrui, è stato un momento estremamente terapeutico e liberatorio – imparare facendo qualcosa di concreto (learning by doing) come scrive A. Ivaldi, è un valore aggiunto. La conclusione più rappresentativa che ho potuto trarre dalla lettura del testo è, quindi, che quello che comprendiamo ci fa meno paura e si trasforma da sintomo da scongiurare a segnale da accogliere. Oggi riesco a sentire che non c’è niente in me che non va, che non sono “sbagliata” soprattutto quando soffro o sono in difficoltà. Un altro aspetto convincente per me del modello REMOTA (Relational Multi-motivationalTherapeuticApproach), è la volontà di superare la dicotomia “medico-paziente” creando il contesto nel quale far emergere l’umanità della relazione. Ho trovato molto interessante, oltre che utile, riconoscere le sfumature della comunicazione con l’altro, riconoscere gli stati emotivi e le intenzioni, attraverso le categorie dei Sistemi Motivazionali*, dei quali esiste un’ampia trattazione nel libro. Ho percepito il superamento della rigidità di ruolo – medico-paziente – che nelle mie precedenti esperienze avevo spesso sentito. E’stato il ritrovarsi vicine, su un piano nel quale potevamo riconoscerci lo stesso valore umano, la mia terapeuta ed io, che ha permesso la nascita di un rapporto autentico, non medicalizzato e distanziante, e proprio per questo terapeutico. Il lavoro congiunto della lettura del libro, ad esempio, ha permesso la nascita di un legame fortemente caratterizzato dal confronto e dalla condivisione, che va ben al di là del classico colloquio bidimensionale, e lo rende invece tridimensionale attraverso la presenza di un attività da svolgere insieme: studiare ed esplorare il pensiero di una terza persona, l’autrice del libro. E’ la cornice di sicurezza che nasce dal sentirsi in un rapporto flessibile che si crea e si sviluppa “a quattro mani” col professionista, il valore aggiunto di questo modo di lavorare in psicoterapia. Il paziente si sente parte in causa nel percorso terapeutico. Mi sono sentita al sicuro e guidata mentre procedevo alla scoperta di me e del mio funzionamento nella relazione col terapeuta e con il mondo esterno. Sentivo che la mia terapeuta poteva contenere i miei pattern impulsivi, ma allo stesso tempo sapevo di essere libera di esprimermi e di negoziare di volta in volta quanto accadeva nella nostra relazione. Alcune delle mie attitudini e capacità sono state riconosciute da lei con autentico entusiasmo e mi sono sentita stimolata a valorizzarle nel percorso terapeutico. In particolare la mia predisposizione alla lettura, alla scrittura e all’analisi, sono state viste dalla terapeuta e prontamente messe al servizio della terapia stessa.  Per la prima volta, in tanti anni, mi sono sentita “alla pari” con la persona che si trova dall’altro lato della scrivania. La valorizzazione delle mie risorse mi ha fatto sentire “sana” e in grado di concorrere al processo di cambiamento anziché una “malata” che subisce una terapia. Forse proprio per questo ho sentito di potermi affidare nei momenti di maggior vulnerabilità, conciliando così diversi bisogni contemporaneamente in maniera armonica. Questa esperienza si configura per me come un precedente virtuoso che ha valore di indurmi a considerare in maniera nuova le relazioni in generale. Per la prima volta sono riuscita a tracciare, in collaborazione con la terapeuta, un risultato evidente del lavoro svolto e dei progressi fatti insieme fino ad ora. Non soltanto è stato possibile “riparare” in parte, le carenze e i danni della mia storia di sviluppo,ma, cosa ancora più importante, sono riuscita a valorizzare le caratteristiche positive, le risorse del mio ambiente familiare che, seppur non particolarmente predisposto all’esplorazione delle emozioni proprie e altrui, mi ha permesso d’altro canto, di coltivare e sviluppare capacità intellettive e una sensibilità culturale, che sono state risorse preziose nella mia vita oltre che nel mio percorso di cura.

 Il modello REMOTA per la terapeuta

Il Modello Relazionale fondato sui Sistemi Motivazionali[1]è un approccio alla relazione fra paziente e terapeuta che mi permette di utilizzare nel lavoro che svolgo lo strumento più importante di cui dispongo:  la mia persona. Nella mia esperienza formativa e di collaborazione professionale con A. Ivaldi, ho imparato ad affinare la mia sensibilità relazionale e soprattutto una certa umiltà, naturale conseguenza di una impostazione esistenziale secondo la quale tutti, ma in particolare un terapeuta non può prescindere dai suoi limiti personali e dai limiti intrinseci nella natura umana. Quando inizia un percorso terapeutico con qualcuno, mi sento di entrare nella vita della persona che si rivolge a me, in punta dei piedi, con interesse e molta attenzione; ci sono volte che di fronte alla sofferenza si può solo agire un rispettoso silenzio. Ascolto le emozioni che nascono dentro di me nel rapporto con il paziente, e mi chiedo continuamente cosa l’altro mi stia comunicando e cosa stia avvenendo tra di noi. La cornice teorica di riferimento, quella delle Teorie Motivazionali (G.Liotti, 1994/2005; J.Lichtenberg, 1989), all’interno del paradigma relazionale in psicoterapia ( A.Ivaldi, 2016 ) mi consente di orientare l’esplorazione tra me e me e con il paziente per individuare quale sistema motivazionale sia attivo e di conseguenza comprendere la nostra interazione. Utilizzare le teorie motivazionali così come elementi di neurofisiologia, consente di avere delle categorie per decodificare quanto ci accade e un linguaggio comune per alimentare il dialogo terapeutico. Questo processo non sarebbe sufficiente se lo sguardo non si aprisse al contesto, nel quale il paziente chiede aiuto e dal quale proviene;conoscerlo, esplorarlo, e provare a capirlo fino in fondo, mi conduce a una visione più complessa del problema e delle possibilità di affrontarlo ( A.Ivaldi 2016). Il modello REMOTA messo a punto da Ivaldi ha un’altra interessante caratteristica: promuove l’integrazione nella psicoterapia. Nel modello confluiscono diverse teorie e modalità di intervento grazie ad una visione olistica dell’uomo e ad una conseguente propensione all’interdisciplinarietà. Nel modello la relazione terapeutica non è un costrutto teorico vago, ma prende corpo in una teoria dello sviluppo e in una teoria della cura, le quali non assumono carattere dogmatico, ma piuttosto, quello di basi di partenza attraverso le quali provare a dare senso al processo terapeutico. L’occasione di lavorare con Viola mi ha permesso di descrivere un’esperienza che ha avuto il merito di dare una voce diretta alla mia paziente, lei è riuscita a parlare di sé e del nostro lavoro insieme e le sono grata per averlo fatto. Ad oggi rimane viva la consapevolezza che c’è ancora molto da esplorare e da fare per comprendere cosa funzioni nella psicoterapia. Tuttavia spero che le nostre parole possano fungere da stimolo per chi è interessato al tema della relazione terapeutica a partire da REMOTA e molto oltre.

 

[1] Sistemi Motivazionali Interspersonali (SMI) sono i principi organizzatori delle interazioni sociali a base innata. Essi organizzano le diverse emozioni e le corrispondenti azioni motorie, in sequenze tipiche per il raggiungimento di una meta dotata di valore evoluzionistico.

 

Marianna Borgato: Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivista, Terapeuta Emdr, Specializzata nel modello il trattamento Relazionale – individuale e di gruppo – fondato sui Sistemi Motivazionali (REMOTA). Socia TeoriAperta, Socia EMDR Italia. 

Lavora a Padova presso il centro di psichiatria e psicoterapia Costruttivamente.

 

RiferimentiBibliografici

Ivaldi A. ( 2016) a cura diTreating Dissociative and Personality Disorders; A Motivational Systems Approach to Theory and Treatment.EdRoutledgeTr. IT ( 2017)Il Trattamento dei Disturbi Dissociativi e di Personalità. Teoria e clinica del modello relazionale fondato sui sistemi motivazionali.”Ed Franco Angeli

Liotti G. (1994/2005), La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma.

LichtenbergJ.D.(1989),PsychoanalisysandMotivation, Analytic Press, Hillsdale,NJ (trad. it.: Psicoanalisi e sistemi motivazionali, Raffaello Cortina, Milano, 1995).

 

 

 

Lascia un commento